La storia che mi
accingo a raccontare è emblematica dell’ipocrisia e della doppia morale
del mondo occidentale quando si toccano gli interessi o le strategie dei
paesi che contano, in particolare gli Stati uniti, per difendere i
quali i media sono pronti a scrivere tutto e il contrario di tutto, a
ignorare platealmente ogni etica e a giustificare le decisioni più
efferate.
Alla
metà di gennaio è cominciato a El Paso, Texas, un giudizio contro Luis
Posada Carriles, una sorta di bin Laden latinoamericano che, anni fa, si
è vantato delle sue azioni terroristiche contro Cuba perfino in
un’intervista concessa al New York Times. Il processo però,
sorprendentemente, non punta a chiarire le infami vicende di cui il
personaggio è stato responsabile: dall’aver fatto esplodere in volo, nel
1976, un aereo di linea della Cubana de Aviación causando 73 vittime,
all’aver organizzato l’assassinio a Washington di Orlando Letelier, ex
ministro degli esteri di Allende, ad aver pianificato una serie di
attentati in centri turistici e alberghi di Cuba che, in un caso, nel
1997, costò la vita al cittadino italiano Fabio Di Celmo.
Posada Carriles,
infatti, è giudicato a El Paso solo per aver mentito al giudice quando,
nel 2005, violò le leggi migratorie degli Stati uniti. Per quel reato
Posada passò due anni in un centro di accoglienza e poi, avendo
“dimenticato” Alberto Gonzales, ministro della giustizia di Bush jr, di
inviare al giudice l’inquietante dossier che l’Fbi aveva raccolto su di
lui, è stato, secondo la legge, liberato e ha stabilito la sua residenza
fittizia nella casa della ex moglie in Florida.
Ora
i suoi fans della comunità cubana di Miami, per aiutare il vecchio
assassino a pagare le spese legali, hanno deciso di costituire un “Fondo
di assistenza legale Luis Posada Carriles”. All’inaugurazione
dell’iniziativa, nella Peña de El Versailles, di fronte al ristorante
omonimo della famosa Calle 8 di Miami, c’era tutta la crema
dell’anticastrismo più feroce e perfino il parlamentare repubblicano
David Rivera che ha sostituito, nel Congresso degli Stati uniti, il più
conosciuto Lincoln Diaz Balart e che, con un braccio sulle spalle
dell’ormai ottantenne terrorista, gli ha espresso il suo appoggio e la
sua solidarietà. Per il rappresentante di un paese che sostiene di
combattere il terrorismo e che da mezzo secolo giura di avere l’autorità
morale per accusare Cuba di violazione dei diritti umani, non c’è male,
specie considerando che, nel momento in cui consente a Posada di
restare impunemente in Florida, il governo degli Stati uniti viola le
sue stesse leggi antiterrorismo. Oltretutto non si può dimenticare, come
ha chiarito Peter Kornbluh, direttore del “Progetto su Cuba” del
National Security Archive che, quando a Posada fu concesso di rimanere
nel paese, le autorità federali di migrazione giudicarono che “la
sua liberazione rappresentava un pericolo tanto per la comunità come
per la sicurezza nazionale degli Stati uniti”. Ma quell’avviso rimase
inascoltato.
Posada,
che ha lavorato tutta la vita per la Cia, è sicuro evidentemente di non
poter essere toccato, come già è accaduto al suo compare di stragi
Orlando Bosch che, anni fa, fu tolto d’impaccio da un provvidenziale
indulto di Bush padre. “Entro l’anno torneremo a Cuba” ha affermato con
sicurezza Posada nell’adunata alla Peña de il Versailles ed ha aggiunto
con sfrontatezza: “I nostri servizi hanno prodotto risultati e noi
ancora non siamo passati all’incasso”.
Un
simile linguaggio, a 50 anni dal trionfo della Revolución sembra
addirittura irreale, ma qualcuno ha filmato questo summit fuori tempo e
Cubadebate, un sito di informazione che appoggia la rivoluzione, ha
realizzato un servizio che, come recentemente è avvenuto tante volte, è
stato messo in rete su YouTube, proprietà di Google.
Bene,
il 12 gennaio scorso il centro tecnico di YouTube ha comunicato la
chiusura forzata del canale di Cubadebate per una denuncia di infrazione
del copyright fatta dall’autore di quella ripresa, utilizzata in quel
servizio solo per un frammento e che già era circolata in rete senza che
fosse richiesta alcuna autorizzazione. In quel momento il canale aveva
più di 400 video e, dalla sua apertura 3 anni fa, aveva avuto oltre 1.6
milioni di visite.
Quando
si dice la libertà di stampa e la possibilità di esprimersi in un sito
alternativo di un paese sotto embargo. Perché a Cuba, grazie al divieto
da parte degli Stati uniti di connettere l’isola ai grandi cavi
sottomarini del continente [divieto che ora Cuba sta aggirando con
l’aiuto del Venezuela], l’accesso a internet è solo satellitare e la
pubblicazione su siti come YouTube è l’unica strada per mettere filmati
in rete per una nazione che non dispone delle risorse minime per gestire
server con contenuti multimediali, come avviene invece a oppositori
come Yoani Sanchez, che ha un potentissimo server tedesco a disposizione
del suo blog. Per di più, grazie sempre all’embargo, Cuba non può
neanche acquistare regolarmente i diritti su materiali prodotti negli
Stati uniti.
Ma
queste considerazioni sono sfuggite, non tanto sorprendentemente, a
molti media occidentali. E, credo, sia ormai una realtà che ha a che
vedere con la diversa interpretazione dei fatti del mondo esistente fra i
paesi del nord e quelli del sud del pianeta.
Al
delicato processo in atto a El Paso, per esempio, la Jornada di Città
del Messico, il quotidiano dove scrivono i più prestigiosi intellettuali
del continente, ha un inviato, mentre a chi fa le pagine dei nostri
giornali o monta il minutino di esteri per i telegiornali, sfuggono,
sull’argomento, perfino le “brevi” che circolano in rete. Se è una rogna
per la credibilità degli Stati uniti o di qualche organizzazione
sovranazionale come la Banca mondiale o la Nato, è meglio eludere,
lasciar perdere. È sufficiente considerare come si è tentato di
disinnescare, minimizzando, la bomba WikiLeaks che, per esempio, anche
per quanto riguarda l’argomento Cuba ha ridicolizzato i luoghi comuni
dell’informazione sistematicamente montata a Washington contro la
Revolución.
I
quattro saggi di Salim Lamrani, docente dell’università Paris Descartes,
che pubblichiamo in questo numero 113 di Latinoamerica, sono
emblematici. Jonathan D. Farrar, attuale responsabile dell’ufficio di
interessi degli Stati uniti a l’Avana, in un dispaccio al Dipartimento
di stato, portato alla luce da WikiLeaks, è drastico: i famosi
dissidenti “hanno pochissimi contatti con la gioventù cubana, e il loro
messaggio non interessa a questo segmento della società […] Nonostante
le affermazioni secondo cui rappresenterebbero migliaia di cubani, non
abbiamo nessuna prova di un tale appoggio, almeno per quanto riguarda
l’Avana, dove noi ci troviamo”. Farrar è addirittura sarcastico sui veri
obiettivi di questi oppositori, interessati solo agli introiti che il
business della dissidenza può portare: “Il loro sforzo maggiore è teso
ad ottenere risorse sufficienti per vivere comodamente […] La loro
preoccupazione principale sembra essere quella di criticare ed
emarginare le attività dei loro concorrenti per mantenere il potere e
l’accesso alle risorse”. E chiude affermando: “I dissidenti non hanno
nessun ascendente sulla società cubana e non offrono un’alternativa
politica al governo di Cuba”. Farrar ha anche segnalato che i
rappresentanti dell’Unione europea, durante una riunione da lui
convocata, hanno screditato questi presunti oppositori storici negli
stessi termini usati proprio dal governo di Cuba, insistendo cioè sul
fatto che non rappresentano nessuno.
Il
diplomatico Usa, considerando poi il lavoro di Yoani Sánchez in un
altro dei suoi cables, non fa certamente un piacere alla pretesa di
indipendenza della bloguera perché, mentre valuta che lei potrebbe
giocare un ruolo a lungo termine in una Cuba post Castro, consiglia il
Dipartimento di stato di concentrare il suo impegno su questa
“dissidente” e offrirle maggior sostegno.
Mi
piacerebbe sapere cosa pensano in Italia la rivista Internazionale e il
quotidiano La Stampa che a questa “eroina della libertà”, che in tre
anni di premi a lei assegnati dai più diversi organismi occidentali ha
portato a casa 250mila dollari, hanno addirittura dato una rubrica
fissa. In un continente dove, solo quest’anno sono stati 40 i
giornalisti assassinati [soprattutto in Messico, Honduras e Colombia,
antichi sodali delle politiche Usa in America latina] credo che questo
sia veramente un fenomeno da guinnes dei primati, che forse spiega anche
perché la Sánchez non sia rimasta in Svizzera dove era approdata, ma
abbia preferito tornare nella “invivibile” Cuba delle sue cronache.
Quasi
tutta l’informazione su Cuba è fasulla o drogata, come non succede a
nessun altro paese al mondo perché, con tutti i suoi limiti ed errori,
la Revolución ha smentito il progetto neoliberista che gli Stati uniti
avevano riservato all’America latina, e ha influenzato molti dei
processi di cambio sociale in atto in questi ultimi anni nel continente a
sud del Texas.
Così
può succedere che quando nel 2010 parte la campagna del Dipartimento di
stato per segnalare gli scioperi della fame di dissidenti come Orlando
Zapata e Guillermo Fariñas, si cita la manifestazione di popolo svoltasi
a Miami per iniziativa della cantante Gloria Estefan, figlia di un ex
guardaspalle del dittatore Fulgencio Batista, ma ci si dimentica di
segnalare che in testa a quel corteo c’era il terrorista Luis Posada
Carriles. Oppure quando si fa in modo che il premio Sakharov per la
libertà di pensiero promosso dall’Unione europea venga assegnato per la
terza volta in nove anni a un dissidente cubano, Guillermo Fariñas, ci
si dimentica di alcuni particolari che poi WikiLeaks rivela. Per esempio
che Fariñas, durante lo sciopero della fame, veniva tenuto in salute
dalle pillole energetiche usate dalla Nasa per sostenere gli astronauti e
che, non si sa come, arrivavano da coloro che avevano montato questa
rappresentazione.
Quello
che più sconcerta è che tutto questo avvenga ormai senza alcun pudore
etico. Al giudizio in corso a El Paso contro Posada Carriles per aver
mentito durante il processo del 2005 per le sue infrazioni alla legge
migratoria, è venuto fuori, per esempio, che la giudice responsabile
dell’inaudito verdetto sancito a Miami contro i cinque agenti
dell’intelligence cubana che avevano smascherato il terrorismo
organizzato in Florida e messo in atto negli anni a Cuba, è la stessa
che si rifiutò di sporgere denuncia penale per terrorismo contro lo
stesso Posada proprio in quel processo del 2005. Caroline Heck-Miller
decise così [o fu costretta dal ministro Gonzales a decidere così]
nonostante una richiesta formale dello stesso Dipartimento di sicurezza
interna degli Stati uniti.
“È
inquietante constatare come l’uomo che ha orchestrato per anni la
campagna terrorista contro Cuba, la stessa che i Cinque cubani hanno
tentato di bloccare per salvare vite umane, sia lo stesso al quale la
giudice Heck-Miller ha permesso di sottrarsi alla giustizia mentre ha
incarcerato per sempre chi lottava contro il terrorismo”. Questo il
commento dell’avvocato José Pertierra, antico combattente dei diritti
civili che, nel giudizio di El Paso, rappresenta gli interessi del
Venezuela che chiede l’estradizione di Posada Carriles per il delitto
riguardante l’abbattimento dell’aereo della Cubana de Aviación dove
viaggiavano molti cittadini venezuelani.
Cosa
pensano di questa storia tanti giornalisti “democratici” quando sentono
che Posada Carriles, il bin Laden latinoamericano, continua a
scommettere che la giustizia nordamericana non lo condannerà, com’è
avvenuto finora? E questo malgrado la stessa Cia, che lo ha utilizzato
per anni, lo consideri un tipo “pericoloso”?
D’altro
canto, il tipo di umanità che accompagna questo vecchio assassino ha lo
stesso stile. Uno di loro, per esempio, Gilberto Díaz Morellon,
veterano della Brigada 2506 e di Alpha 66, antichi gruppi militanti
dell’eversione anticastrista più sanguinaria, è arrivato addirittura a
minacciare pubblicamente l’avvocato Pertierra. L’episodio, rivelato
dallo stesso Pertierra al quotidiano la Jornada, è avvenuto il 10
gennaio. Díaz Morellon si è avvicinato a lui nell’aula di El Paso e,
piantandogli un dito sulla faccia, gli ha chiesto: “Ti servono fiori,
hai bisogno di fiori, cane?”. Pertierra ha spiegato che “perro”, cane, è
la stessa parola in codice che Posada Carriles e Orlando Bosch, al
tempo dell’abbattimento dell’aereo della Cubana, usarono per comunicare
che il loro sporco piano era stato eseguito: “Tutti i cani sono morti”. I
cani erano 73 passeggeri di varie nazionalità.
Mi
domando se Barack Obama, Presidente degli Stati uniti portatore di
un’etica che annunciava “cambiamento, speranza e progresso” nonché
premio Nobel per la pace “sulla fiducia”, proprio non possa far nulla
perché i parenti delle vittime non vedano finalmente puniti gli autori
di questi crimini. O perché, finalmente dopo 12 anni, i Cinque cubani
che, con il loro sacrificio, sono riusciti a smascherare e fermare
questa macchina di morte, non tornino come è giusto a riabbracciare le
loro famiglie.
O
dobbiamo tristemente rassegnarci al fatto che, nonostante le rivelazioni
di WikiLeaks, tutta questa storia continuerà ad andare avanti sui
vecchi binari dell’ingiustizia e dell’ipocrisia?
Questo
è un rischio che si corre anche parlando del caso Bsttisti,
dimenticando che Battisti rischia di non pagare mai il suo debito con la
giustizia perchè l'Italia, il suo paese, non è ancora riuscita a fare i
conti con il suo recente passato, con gli anni di piombo.
All'estero
questo lo sanno, e sanno che prima dell'apparizione delle Brigate rosse
in Italia c'erano state già alcune stragi, fasciste o di stato, ancora,
per la maggior parte, impunite.
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