quinta-feira, 22 de novembro de 2012

Italia(ni) e colonialismo


Un brano di un dialogo tra Wu Ming 2 e Giuliano Santoro, potete leggere l'intero dialogo qui


E fu così che, nel bel mezzo dell’autunno della crisi e dei sacrifici “tecnici”, si materializzò nel dibattito pubblico il monumento a Rodolfo Graziani governatore della Cirenaica e criminale di guerra del ventennio fascista. Graziani fu governatore durante la dominazione fascista della Libia, comandante nel corso dell’invasione dell’Etiopia, viceré d’Etiopia nel 1936-‘37 e comandante delle forze armate della Repubblica di Salò, lo stato-fantoccio mussoliniano che de facto rappresentò un protettorato nazista, dal 1943-45. Il monumento a questo macellaio del colonialismo e del nazifascismo è stato inaugurato l’11 agosto scorso ad Affile, paesello della provincia di Roma ai confini col frusinate. Il memoriale dapprima non ha destato scandalo, poi – complice il grido d’allarme, "Affile, Grazianilandia. L’eredità razzista e il mausoleo delle sfighe", lanciato in settembre dalle pagine di Giap – ha conquistato le pagine dei giornali ed è diventato il simbolo della mancanza di memoria in questo paese. Tuttavia il monumento al criminale di guerra Rodolfo Graziani sta a ancora là. È un’occasione da cogliere per capire come le scorie dei postfascisti al governo e l’eredità tossica del ventennio berlusconiano abbiano influenzato il nostro rapporto con la storia.
In un articolo comparso sulla rivista internazionale di studi postcoloniali Interventionsnel 2007, Miguel Mellino si chiedeva come mai proprio in Italia - paese che ha un passato coloniale ed un presente attraversato da flussi migratori - gli studi postcoloniali e il dibattito critico su queste tematiche non avessero trovato terreno fertile. Una delle conclusioni di Mellino era che questa lacuna poteva essere colmata, (di più: stava già cominciando a essere colmata) soltanto negli spazi “al confine” tra la ricerca accademica e le lotte sociali. Di questo discuto con Wu Ming 2, uno dei membri del colletivo Wu Ming. Il mio interlocutore ha scritto con Antar Mohamed “Timira”, “romanzo meticcio” che racconta la storia di Isabella Marincola, donna che ha vissuto da una prospettiva “in-between” il periodo che va dal colonialismo fascista ai giorni nostri. Il tema del colonialismo e del rapporto con le storie incompatibili che agitano l’inconscio collettivo e sono in grado di mostrarci lati oscuri e “prospettive oblique” attraversa tutta la produzione letteraria dei Wu Ming. Per rimanere a due testi recenti,Manituana è ambientato nel mezzo della “rivoluzione” americana contro il colonialismo britannico e Altai ci racconta la battaglia di Lepanto (vero mito fondativo del concetto di Occidente) dal punto di vista degli infedeli. Ancora: tra febbraio e marzo del prossimo anno uscirà Point Lenana. Anche questo romanzo, firmato da Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, affronta il tema del rapporto tra l’Italia e l’Africa, dal punto di vista insolito delle vicende legata alla scalata del Monte Kenya da parte di tre italiani negli anni della Seconda Guerra Mondiale.


Dunque, strappo Wu Ming 2 dalla scrittura di L’armata dei sonnambuli (questo il titolo del prossimo romanzo del collettivo, che sarà ambientato negli anni “del terrore” immediatamente successivi alla rivoluzione francese) e gli chiedo, per cominciare: il sacrario di Affile rappresenta davvero l’incapacità dell’Italia di fare i conti col suo passato coloniale?
Direi più in generale che il sacrario di Affile è un monumento all'incapacità italiana di fare i conti con la Storia. Nei giorni in cui si discuteva di quel Vespasiano di Sangue, molti giornali hanno pubblicato in prima pagina la notizia che il Tribunale di Stoccarda ha assolto gli otto indagati per la Strage di Stazzema. Da tutti gli articoli, oltre alla giusta indignazione per la sentenza, trapelava un sentimento critico nei confronti dell'intera nazione tedesca, ancora non abbastanza risoluta nel riconoscere la vastità dei crimini nazisti. Eppure, non c'è nulla di particolarmente “tedesco” nel tribunale di uno Stato che usa i codici per difendere le proprie forze dell'ordine. È un film visto e rivisto, che non conosce confini. Al contrario, c'è molto di italiano nella degradazione della Storia a semplice nostalgia, terreno di caccia, venerazione di facciata, giochino elettorale. Pensate che cosa sarebbe successo se un comune del Baden-Württemberg avesse eretto un monumento per uno degli accusati di Stazzema. Pensato? Ecco, quello è il sentimento che provano etiopi e libici nel sapere che in Italia c'è un sacrario dedicato a Graziani. Ma quelli sono negri e beduini, cosa vuoi che importi. Dunque il sacrario è anche un monumento al razzismo degli italiani. Con tutto che pure gli italiani dovrebbero provare un sentimento di ripulsa, perché Graziani, tanto per dirne una, fu pure il firmatario del bando – nel febbraio '44 – che prevedeva la fucilazione per chi non si presentava alla visita di leva.
Graziani era fascista e colonialista. Ho notato che si tende spesso a distinguere tra i crimini del nazifascismo da quelli del colonialismo, forse perché questi ultimi sono stati commessi anche prima del Ventennio, come avete ricordato in occasione di un vostro speech sull’anniversario dell’Unità d’Italia. Eppure, c’è una relazione storica tra i due fenomeni: nel suo “Discorso sul colonialismo” l’intellettuale e poeta martinicano Aimé Césaire scriveva: “Varrebbe davvero la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell'hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista e cristiano del ventesimo secolo che anch'egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso”. Césaire ricordava anche che il nazismo ha “applicato all'Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi d'Algeria, ai coolie dell'India e ai negri dell'Africa”. In effetti, la persecuzione degli ebrei in Europa non venne dal nulla. Al contrario ebbe modo di prendere a modello la “socializzazione all’indifferenza” che era già stata sperimentata con i colonizzati; così come i lager e le pratiche di “annientamento amministrativo” erano stati nelle colonie. Pur distinguendo i fenomeni storici della Shoa e dei massacri coloniali, siamo costretti a prendere atto del fatto che l’Olocausto viene oggi – per fortuna – riconosciuto come “male assoluto” perché i sopravvissuti ne hanno tramandato la memoria, non senza trovare qualche ostacolo all’inizio. Tuttavia, ciò ancora non avviene quando si tratta di colonialismo. Quali corde dell’inconscio collettivo muove quella storia rimossa e come mai non diventa oggetto di dibattito pubblico?
Sono molto d'accordo con il discorso di Césaire, tanto che in Timira ho cercato di mettere a nudo anche il “piccolo colonialista” che mi sono ritrovato nel cervello, pur credendomi immune da una simile cultura. Tuttavia, ritengo che in Italia sia importante distinguere i crimini colonialisti dell'epoca liberale da quelli fascisti: si mostra così che fu il colonialismo (e il razzismo) a innestarsi nel fascismo, e non viceversa, che esso fu uno dei suoi elementi costitutivi (il Partito Nazionalista, grande sostenitore dell'impresa coloniale, confluì nel Pnf nel 1923). La retorica imperiale fascista ha finito per far coincidere, nell'immaginario collettivo, l'epoca delle colonie con la dittatura, e questo è un primo motivo di rimozione: se attribuiamo al fascismo la ferocia coloniale e i deliri sulla razza, allora ne facciamo il capro espiatorio di quelle brutture. E una volta immolato il capro, possiamo credere di aver mondato anche la storia patria e il nostro Dna da quella sporcizia. Detto questo, io credo che colonialismo e fascismo – pur distinti – vadano messi in stretta relazione, e che non si possa capire appieno il secondo se non si studia il primo in profondità. Lo stesso vale per la lotta di Liberazione: penso che la nostra Resistenza sia stata in buona parte una guerriglia anti-coloniale, radicata sul territorio, diretta contro un esercito invasore e contro un regime che aveva colonizzato le coscienze. Wu Ming 1 sta lavorando molto su questo parallelismo nelle pagine del suo prossimo libro, Point Lenana. Tanti italiani presero le armi e diventarono antifascisti proprio quando si trovarono nella condizione di vivere in una colonia del Reich. Quella condizione coloniale creò una specie di cortocircuito, un insight improvviso e contraddittorio. Nelle memorie di quei soldati italiani che dopo l'8 settembre '43 disertarono sul fronte greco e jugoslavo, troviamo spesso la partecipazione a episodi di resistenza, ma non c'è mai il ricordo di quel che accadde prima dell'8 settembre, quando quegli stessi soldati facevano parte di un esercito invasore, che commetteva soprusi, stragi e fucilazioni. La coscienza anti-colonialista di quei soldati, una volta risvegliata, ha cancellato il ricordo di quanto loro stessi avevano commesso da colonialisti. Credo che in parte la rimozione della nostra esperienza coloniale dall'inconscio collettivo abbia a che fare anche con questo: i due miti fondativi della nostra nazione, ovvero il Risorgimento e la Resistenza, sono miti anti-colonialisti. Dunque, che ci siamo andati a fare in Africa, se non i ponti, gli ospedali, le strade? In secondo luogo, come dimostra bene il famoso discorso di Pascoli in favore dell'invasione della Libia (1911), buona parte della nostra retorica espansionista nasce dal vittimismo: gli Italiani sono ovunque derisi, trattati a pesci in faccia, considerati gente sporca e rissosa. È giunto il momento di far vedere al mondo quel che valiamo, di non essere più soltanto vittime, ma civilizzatori, padroni a casa nostra e in una casa più larga. Ma allora questo colonialismo “da vittime” non può esser stato che comprensivo, buono, tutt'al più straccione. Di certo non feroce. Infine, avendo perso le colonie con la seconda guerra mondiale, non abbiamo conosciuto nulla di paragonabile alla guerra d'Algeria o alla rivolta dei Mau Mau. Anzi: nel dopoguerra De Gasperi si adoperò per ottenere qualche ex-colonia in Amministrazione fiduciaria dalle Nazioni Unite. Spese le credenziali dell'antifascismo e della Resistenza per dire che l'Italia non era come la Germania o il Giappone, non la si poteva umiliare togliendole tutte le colonie. Ci voleva un contentino, e visto che nel frattempo c'eravamo tolti la camicia nera e avevamo imparato la democrazia, si offrì di insegnarla ai selvaggi che ancora non la conoscevano e ottenne l'affidamento decennale dell'ex-Somalia Italiana, per avviarla all'indipendenza. L'Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia fu una specie di colonia a tempo, con scadenza nel 1960. Ma era una colonia, così come “le operazioni di polizia internazionale” sono guerre e le bombe intelligenti sono ordigni di morte. I somali infatti non si fecero ingannare e reinterpretarono subito il nuovo acronimo (A.F.I.S.) come: Ancora Fascisti Italiani in Somalia. Burocrati e funzionari, infatti, erano gli stessi di prima della guerra, e nemmeno alcune leggi razziste vennero cambiate. Tuttavia, questo ci permise di pensare che mentre gli altri paesi europei dovevano combattere contro le guerriglie di liberazione, noi invece andavamo d'accordo con i nostri ex-colonizzati, tanto che addirittura potevamo festeggiare con loro, a Roma, la tanto sudata indipendenza. E questo fu un altro macigno calato sopra i crimini del nostro colonialismo.

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