sábado, 17 de novembro de 2012

Le origini del calcio


C'è un nuovo libro sul calcio che sta per essere pubblicato, parla (anche del Brasile). Questa
è una parte del primo capitolo che l'autore ha messo a disposizione per tutti. Non trovo più
il nome dell'autore, continuerò le ricerche, ma l'avevo trovato in Fùtbologia.org, un nuovo
interessante progetto dei Wu Ming.


Calcio e origini. Cusano Milanino, 1961
Questo libro vuole raccontare la storia del calcio in Brasile, senza la pretesa di dire tutto – ci vorrebbe un’enciclopedia intera, molti se ne sentirebbero comunque esclusi, non potrei più mettere piede da quelle parti – ma lasciandomi trasportare sia dalla passione infantile di cui parla Verissimo sia dal mio punto di vista europeo, lontano quindi parziale.

Io sono nato a Milano nel 1957. A casa nostra la televisione è arrivata nel 1961, ho iniziato a vedere il calcio (prima era una cosa solo radiofonica) e a provare emozione in un gol, un passaggio fatto bene, il punteggio che aumentava a nostro favore.
Le cronache televisive e i commenti di mio padre mi mostravano due dimensioni di questo sport.

La prima dimensione era quella di tutte le domeniche, con la mia squadra che era naturalmente quella di mio padre (squadra di Milano, strisce nere e azzurre, all’epoca otto volte campione d’Italia), il secondo tempo di una partita alle sette della domenica sera, settimane e mesi di pomeriggi che dovevano portare a vincere qualcosa, immagini bianche e nere dove a volte pioveva e giocavano lo stesso (incredibile, ai miei occhi), personaggi che mi rimanevano più impressi di altri per il volto o per il nome… Brighenti, Mazzola, Sani, Pascutti, Hamrin, Hitchens… Sivori che litigava con tutti… Cucchiaroni, che chiamavo Cucchiaioni.
Trapattoni che abitava vicino a casa nostra - Cusano Milanino, poco sopra Milano – e che (fatto ancora più incredibile) aveva un’esistenza reale oltre che televisiva: capitava di incrociarlo, serio serio con la sua borsa di giovanissimo calciatore.
Oppure Lovati, all’epoca portiere della Lazio: era il nostro padrone di casa, gli
versavamo l’affitto. A bordo campo per la mia squadra c’era già un agitato che somigliava al nostro salumiere… tale Herrera… era il nome dell’agitato, non del salumiere.


La seconda dimensione era il Brasile.
Immagini rare. Di calcio fuori d’Italia se ne vedeva di rado, almeno per me che all’ora della Domenica sportiva ero naturalmente già a dormire. Solo i commenti ancora di mio padre o del mio zio juventino, o i titoli sui giornali (sapevo leggere a quattro anni) componevano un paese lontano, grandissimo, sempre al sole, con stadi enormi dove ci stava mezza Milano… squadre dal gioco inarrivabile e dai nomi efficaci, calciatori capaci di dribblare tutti gli avversari e arrivare in porta sghignazzando.
Uno spazio del pensiero e dell’immaginazione. Un luogo leggendario al di là dell’oceano dove tanti erano poveri, ma tutti potevano diventare ricchi giocando quel calcio allegro e miracoloso. Nomi pochi, ma te li ricordavi bene: Pelé, ovviamente, sopra tutti, il più bravo del mondo e già allora il più grande di tutti i tempi… Didi e Vavá, come fai a scordare due che si chiamano così, ti viene voglia di correre dietro una bola solo a nominarli… Garrincha (qui lo pronunciavamo “Garincia”), secondo mio padre anche meglio di Pelé.
Quando in cortile si metteva insieme un abbozzo di partita tra noi bambini, c’era chi sceglieva di essere Rivera, chi Mazzola, chi Facchetti o Bulgarelli o addirittura Ghiggia… ma nessuno, proprio nessuno ha mai avuto la faccia tosta di dire “Io sono Pelé!” o “Io sono Vavá!”. Sarebbe stato seppellito dalle risate.
Noi di qui – Cusano Milanino, Milano, Italia, a miliardi di chilometri dal Brasile - non saremo mai stati come loro, non avremmo mai potuto giocare bene come loro. Questo era il messaggio.
Questo libro è anche un salto in quella suggestione antica, ai primordi della mia esistenza e della mia quasi coeva fascinazione verso il gioco del calcio; e per quello brasiliano, che ne era l’anima portata al cubo.

Comunque… non voglio restare ai fatti miei e alla mia preistoria, ormai corrotta dalla televisione.
Per parlare di calcio – e di Brasile – bisogna guardare là in fondo, fin dove pare non vedersi nulla.
Prima del calcio moderno.
Prima del Brasile.
Il calcio prima del calcio, in epoche da libri di storia, dove pensiamo esistano solo popoli e personaggi monumentali, disegni ed edifici arcaici, saperi già complessi ma ignari di abitare tutti su un unico pianeta.
Chiedersi quando è nato il calcio è paragonabile alla domanda sulla primogenitura dell’uovo e della gallina, o di chi sia arrivato primo in un posto poi chiamato America. Non ci vuole una gran scienza a tirare un colpo di piede a un mela caduta a terra. Né è necessario consultare lo sciamano quanto sia lecito passare la stessa mela a un altro del tuo gruppo, contando sul fatto che poi te la ritiri indietro. Di piede, certo. Non facendola acchiappare dalla bocca di un cane lì vagante. Mirando un punto per centrarlo dopo ripetuti tentativi. Allargando il bersaglio perché cogliere un punto troppo piccolo tirando una mela con i piedi è comunque difficile, ci si scoccia e il gioco dura poco…

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